Larks’ tongues in aspic

King Crimson, 1973
dall’album Larks’ tongues in aspic
Il termine “canzone” è improprio per questa sinfonia rock-jazz, articolata in diversi movimenti che si succedono in un’alternanza di pieni e di vuoti, come in una costruzione architettonica.

L’inizio è spiazzante, con tre minuti di percussioni metalliche che danno l’idea di una passeggiata sotto la pioggia, in un bosco fatato.

Il violino di David Cross introduce un clima di tensione che sale in progressione fino all’esplosione (3’44”) di un rock potentissimo che da solo fa impallidire l’intero movimento di heavy metal. Se lo senti da uno stereo di qualità ti appiccica al muro, letteralmente.

Un funambolismo chitarristico di Robert Fripp (4’57”) introduce a un altro movimento rock e poi (6’20”) a una sorta di jam session con venature jazz nella quale spicca la batteria in controtempo di Bill Bruford.

Dopo un succedersi convulso di emozioni e suoni c’è bisogno di un po’ di quiete, ed ecco un rilassante violino (7’50”) che tesse le sue trame con il supporto di cineserie varie (11’00”) e che introduce a un finale (11’40”) ricco di pathos, con un suggestivo e misterioso parlato in sottofondo.

Come un po’ tutta la produzione King Crimson, il brano è in bilico tra sperimentazione e romanticismo e riesce ad armonizzare la grande tecnica dei musicisti con gli spazi di improvvisazione, affidati a percussioni e violino.

Disordine e schema convivono in questa sinfonia che sembra proprio avere la mission di conciliare le contraddizioni.

Proprio per questo si presenta ostica al primo approccio – a cominciare dal titolo: lingua di allodola in gelatina – ma con un ascolto attento può essere considerata un capolavoro.

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